1. L’immagine dell’Africa in Italia e la nuova propaganda
Esattamente come nelle cronache è sempre esistita una differenza tra il racconto propagandistico dell’Italia coloniale e i drammi e le contraddizioni che hanno fatto parte di questa esperienza storica, così si può distinguere nelle arti visive tra la raffigurazione veritiera di un territorio, di una realtà umana e storica, e la sua distorsione e mitizzazione per mezzo di rappresentazioni che oggi definiremmo forse fumettistiche, ma che al tempo facevano parte di una retorica distorta nei principi, ma strutturata su una strategia comunicativa ben precisa. L’Africa aveva fatto il suo ingresso nell’immaginario italiano già dal ‘800, attraverso romanzi d’avventura e cronache coloniali che rimarcano spesso l’esotismo e il mistero che circonda le zone inesplorate dei territori coloniali. Tra le opere più celebri si può citare “Gli Italiani in Africa” di Maffio Savelli, romanzo d’avventura pubblicato in ottantaquattro dispense da 10 centesimi l’una, corredate da illustrazioni di copertina.
Quanto avviene durante il fascismo, è l’organizzazione del comporto propagandistico in maniera capillare e strutturata con il fine preciso di incidere sulla coscienza degli italiani ed indirizzarli ad un preciso atteggiamento nei confronti della guerra per la nuova colonia e il conseguente ripopolamento dei territori africani. Considerando il successo della campagna mediale fascista rispetto agli esiti dell’impresa coloniale vera e propria, non sarebbe azzardato affermare che il regime sia arrivato a costruire l’Africa nell’immaginario italiano meglio di quanto non sia riuscita a creare una vera colonia organizzata nei territori occupati . Come commenta Valeria Deplano:
Non è difficile immaginari i valori sottostanti a questa campagna mediale, né i toni con cui l’Africa viene rappresentata: esaltazione militaristica, imperiale e, tristemente, un accento razziale che è stata la triste marca dell’ideologia dominante in Europa prima dello scoppiare della seconda guerra mondiale. La propaganda fascista riesce così a dar vita ad un immaginario africano ben preciso e lo fa ricorrendo a una campagna mediale diffusa su tutti i principali mezzi di comunicazione del tempo. Siamo agli albori della comunicazione di massa, in un momento in cui strumenti e linguaggi stanno evolvendo verso nuove direzioni. Per contingenze storiche l’illustrazione grafica è uno degli ambiti che comincia ad affermarsi con maggior forza. Il regime mussoliniano, conscio delle possibilità da essa offerte, commissiona ad illustratori celebri una serie di cartoline, manifesti, copertine con fine propagandistico, tra i quali un esempio notevole è costituito proprio dal materiale realizzato per promuovere la campagna coloniale.
2. Illustrazione e pittura
L’intuizione fondamentale di Mussolini nello sviluppo dei nuovi linguaggi per la campagna di regime, consiste nel rivolgersi ad ampie fasce di popolazione , prevalentemente analfabete, che erano state fino a quel momento storico escluse da ogni forma di comunicazione politica, se non di tipo coercitivo. Scrive a riguardo Gian Paolo Ceserani:
L’immagine è lo strumento prediletto per comunicare in modo immediato con un pubblico illetterato e vasto. Ciò, unitamente allo sviluppo del linguaggio pubblicitario di massa, rendono l’opera e la tecnica di molti illustratori celebri (Pisani, Boccasile, d’Ercoli, Tafuri per citarne alcuni), una scelta ideale per veicolare i dettami del regime. Ma è necessario evolvere il linguaggio (allontanandosi da quello pittorico) e il manifesto pubblicitario sembra rappresentare un buon modello per raggiungere l’obbiettivo.
Non c’è alcuno sforzo evidente di coinvolgere vaste fasce di cittadini nel discorso pubblicitario. Non servirebbe; non sarebbe richiesto dal mercato. Invece, questo sforzo lo troviamo nella propaganda fascista. A Mussolini, abbiamo detto, la gente interessa. Egli ha da vendere un “prodotto” di massa: la propria figura di capo e di Duce, e le collegate proiezioni: l’impero di Roma antica. Non si può governare senza consenso, e questo Mussolini lo sa benissimo. Egli guarda agli italiani in un modo assolutamente nuovo: li vede proprio come “consumatori”, precisamente “consumatori politici”. Un target, però, per quanto vasto lo deve scegliere, non può comprendere tutta la popolazione. Anche Mussolini scelse. Scelse il lavoro dei campi anziché il lavoro industriale, scelse la popolazione rurale anziché quella urbana, scelse il vecchio al posto del nuovo. (ibidem. p. 25)
L’evoluzione del linguaggio e l’adozione del manifesto pubblicitario come modello si è tradotto in un ribaltamento, un’inversione di tendenza, rispetto ai canoni estetici fondamentali dell’arte visiva dominante, ovvero la pittura. Non a caso, come scrive Entrico Sturani “Il manifesto che noi chiamiamo moderno nasce quando l’autore (il nome-guida è quello di Cappiello) decide di eliminare i fondali pittorici che caratterizzano i primissimi manifesti” (“Le allegorie patriottiche privatamente prodotte da V.E. Boeri.” Apud. Ibidem. p.24). Ma l’inversione di tendenza è, come scrive lo studioso, più generale:
In generale questa attenzione per una dimensione grafica estremamente codificata, composta per lo più da cartoline, fotografie e, soprattutto, illustrazioni di ambito militare o in generale utilizzate come copertine di rivisite, ha implicato necessariamente una minore attenzione per la dimensione pittorica di cui, per quanto riguarda specificamente l’ambito dei territori coloniali, il “ritrattista e paesaggista ufficiale dell’africa orientale” Giambattista Sabbatino è senza dubbio uno dei pochi esponenti. Per questo motivo al fine di rendere conto e meglio spiegare questa inversione di tendenza, pochi esempi sarebbero esplicativi come il confronto tra i modi di rappresentazione della propaganda di regime e l’opera di un pittore come Sabbatino.
3. I quadri di Sabbatino in Africa
Il linguaggio dell’illustrazione ha delle marche evidenti, determinate dalle nuove esigenze comunicative a cui deve far fronte. All’illustratore è affidato il compito, spesso in assenza di fonti fotografiche, di ricostruire l’immagine di eventi straordinari ricorrendo non di rado alla sua fantasia e capacità compositiva. Lo scopo è evidentemente sensazionalistico: il disegno stampato deve attirare l’attenzione, intrigare e coinvolgere fasce di popolazione dai livelli educativi più diversi. L’attenzione dell’illustratore si sposta sulla dinamicità dell’immagine, sulla sua suggestività, drammaticità e capacità di sintesi.
Sarebbe ovviamente ingenuo affermare che la pittura sia sempre estranea all’intento propagandistico. Tuttavia in un contesto dove la tecnica dell’illustratore viene spesso piegata a specifiche esigenze di propaganda, per mezzo di un linguaggio precisamente codificato e ricco di stilemi, topoi e ripetizioni, è interessante notare in che modo la pittura dello stampo più classico rappresenti una forma di comunicazione e narrazione in posizione polarmente oppositiva alla propaganda di regime, di cui rappresenta una controparte comunicativamente neutrale, naturale. La scelta trova tuttavia una facile spiegazione concettuale: dove l’illustrazione con i suoi tratti stilistici ben determinati può prestarsi facilmente a distorsioni di stampo propagandistico, esiste nella pittura paesaggistica di stampo più classico un certo innato “realismo”, una certa naturalità. In che senso nella pittura di Sabbatino possiamo trovare una rappresentazione veritiera dell’Africa e da dove scaturisce questa veridicità? Si potrebbe facilmente argomentare che un pittore possa facilmente peccare per un eccesso di esotismo, che possa restituirci per mezzo della pittura una realtà distorta, ingenua, trasfigurata, se non patinata, allo stesso modo in cui lo hanno fatto le illustrazioni di regime. Tuttavia nel caso specifico della rappresentazioni dell’Africa coloniale sono ravvisabili precise scelte stilistiche di rappresentazione che vincolano irrimediabilmente l’immagine all’intento propagandistico. Come nota Loredana Polezzi, nel saggio “Esotismi-Eroismi: motivi d’Africa nell’immaginario fascista”:
Al contempo osservabile come nei quadri di Sabbatino siano ravvisabili tendenze, nelle scelte pittoriche e di rappresentazione, diametralmente inverse, che ci permettono di interpretare l’opera del pittore come una particolarissima ed originale controparte rispetto all’unificante discorso di regime. Proprio nei quadri paesaggistici, e in particolari quelli dove sono presenti anche elementi umani, che possiamo osservare con maggior forza le differenze che sussistono tra i due stili, i due discorsi. Esiste in primo luogo una questione prospettica: Sabbatino, che a differenza di molti illustratori di regime ha vissuto i territori coloniali direttamente, dipinge i paesaggi africani portando con sé il classico cavalletto e nel comporre i suoi quadri restituisce perfettamente la prospettiva di un disegnatore empirico, reale. Non osserviamo la “vista dall’alto” a cui si riferisce la studiosa; al contrario la linea dell’orizzonte e il punto di fuga prospettico sono autenticamente quelle del pittore, di un essere umano che osserva il contesto direttamente, non che lo domina autoritariamente dall’alto. Lo stesso può dirsi dell’elemento umano: dove l’illustrazione di regime è volta specificatamente a rappresentare la possibilità di azione da parte del colonizzatore nei confronti di un territorio che aspetta solo di essere riconfigurato, nei quadri di Sabbatino l’elemento umano sembra parte dello scenario naturale, o almeno sembra entrarvi in “punta di piedi”, consapevole della marginalità del ruolo dell’uomo nei confronti di una natura impervia e onnipresente. Per questo Sabbatino può permettersi di rappresentare figure di spalle o dal volto occultato: al centro della sua opera sta proprio la particolare interazione tra l’uomo e la natura nel quale nessuno dei due sembra avere il sopravvento, ma in cui i due elementi si fondono, per mezzo del colore, in un’unità che ben rappresenta il particolare rapporto con la terra delle popolazioni africane rappresentate dal pittore. Quella di Sabbatino è in qualche modo una prospettiva indigena, non solo per il suo collocarsi fisicamente nello scenario e nel rappresentarlo da un punto di vista reale, ma anche per la profonda consapevolezza del ruolo marginale dell’essere umano in questo scenario, come prodotto e parte di quello stesso scenario naturale e non come figura “eroica” destinata a soggiogarlo. Si tratta di una consapevolezza che è certamente più vicina a quella delle popolazioni rappresentate, che con la natura vivono un rapporto di lotta quotidiana e spesso allo stesso tempo di suggestiva venerazione, che non alle semplicistiche, coatte idee dell’illustrazione di regime. Questa prospettiva sulla natura emerge con chiarezza anche dall’uso del colore, dal modo in cui il pennello ama soffermarsi sullo scenario naturale. Dove nei ritratti umani Sabbatino ricorre a un tratto definito, frutto dell’educazione neo-classica delle accademie d’arte romana, nel rappresentazione dei quadri paesaggistici si osserva una tendenza vagamente impressionistica. Si noti come in “Vista su Keren”(figura a sinistra) la vegetazione sia resa attraverso l’uso libero del pennello, che restituisce la rigogliosità dello scenario vegetale per mezzo delle macchia di colore. L’uso “puro” del colore prende il sopravvento sulla composizione della tela, con un’istintualità che sembra ricordarci il modo in cui lo scenario naturale sovrasta e supera quello umano, spontaneamente. Unico elemento propriamente umano sembra la moschea sullo sfondo; si tratta tuttavia ancora una volta di un soggetto pittorico che non troverebbe mai spazio in una rappresentazione come quelle di regime: qualcosa che fa parte dello scenario umano ma che rappresenta un elemento autentico e centrale della vita delle popolazioni del luogo, di cui suggestivamente Sabbatino ci riporta usi e costumi che fanno parte della loro esistenza locale. Nelle cartoline di regime, non c’è spazio per parlare della vita reale delle popolazioni colonizzate: l’indigeno è solo rappresentato o come nemico feroce, o come selvaggio inerte in attesa del buon colonizzatore, incapace di una vita civile così come di una qualsiasi cultura originale.