1. I mercati dell’Africa Orientale

I mercati africani fanno parte dell’immaginario comune. Per lo più vi sono entrati in modo stereotipato, come “caravanserragli”, luoghi confusionari ed affollati, dove esiste ancora la trattativa alla marocchina e il baratto, come luoghi di confine, spazi attraverso i quali accedere ai misteri e i segreti delle remote popolazioni africane che li allestiscono, dove non “mancano […] lo stregone che spaccia amuleti e talismani, l’indovina che predice tutto.” (Ester Panetta, Studi italiani di etnologia e folklore dell' Africa orientate: Eritrea, Etiopia, Somalia. Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1973–4).
Ma l’analisi del mercato come scenario umano ed etnografico ha un’antica tradizione di analisi scientifica, che oltre a sottrarlo dalla solita coltre di luoghi comuni e stereotipi, riscopre questo ambiente come porta d’accesso alla varietà delle culture che li interessano, alle relazioni che si stabiliscono tra queste, agli aspetti determinanti della loro vita quotidiana.
“Il mercato è un valido strumento di studio che consente, forse più di altri mezzi di penetrazione, di allargare la propria esperienza, permettendo di cogliere dal vivo l’indole, il tenore di vita, il carattere morale delle varie genti, e di porre significative comparazioni." (Ibidem p.296 – Da G. Dainelli)
In altri termini, in Africa il mercato rappresenta un luogo che, per le particolari condizioni di vita che interessano questo continente, assume un’importanza e un significato sconosciuti alla sua controparte europea, dove la sua concezione come luogo sociale si avvicina sempre più all’estinzione.
E’ probabile che la stessa sorte, presto o tardi, toccherà anche ai mercati africani. Proprio per questo, in un continente dove la tradizione del mercato ha rivestito tanta importanza e, soprattutto, dove i documenti storici di epoca pre-coloniale sono scarsi e frammentari, è necessario dedicare una speciale cura alle poche testimonianze che ci sono rimaste, in virtù della densità di informazioni culturali, etnografiche e storiche che il mercato africano, con la sua particolare configurazione, può offrirci.
Per quanto riguarda le testimonianze in lingua italiana possiamo recuperare molto dalle cronache, i bollettini e i rapporti parlamentari che descrivono la graduale trasformazione del paesaggio umano e geografico attraverso il processo coloniale. Per contingenze storiche, questa documentazione interessa ovviamente solo l’Africa Orientale, su cui di conseguenza ci si focalizzerà in questo articolo.

2. Economia dei mercati Africani

Storicamente l’interesse per i mercati e il loro sviluppo è in generale legato allo studio di dinamiche economiche, prima che antropologiche. Cioè vale per l’Africa così come qualsiasi altro luogo, con la differenza che quanto più un territorio è di difficile abitazione, quanto più sono scarse le risorse e difficili gli spostamenti, tanto più il momento del mercato diventa centrale nel controllo economico di un territorio.
Di questo erano ben consapevoli gli inglesi durante il periodo coloniale, il cui modello si tentava di riprodurre nell’organizzazione dei territori italiani. Racconta A. Bardi ( in "Dall’etiopia selvaggia all’impero d’italia") di come questi avessero, agli inizi del secolo scorso, preso possesso delle principali vie carovaniere della Somalia, creandovi stazioni di sosta protette e gratuite, necessarie a reindirizzare le carovane in direzione dei mercati più favorevoli al colonizzatore.
Tuttavia il ruolo rivestito dai mercati tradizionali, nell’economia locale, è solo uno degli aspetti da considerare per rendere conto della loro importanza globale per le popolazioni dell’Africa Orientale e, di riflesso, nel considerarne l’importanza dei documenti che li rappresentano e che ci parlano di essi. In altri termini, la centralità economica di questi luoghi ne determina irrimediabilmente anche una centralità dal punto di vista culturale.
I due aspetti sono tuttavia in correlazione reciproca. L’interesse economico che investe i mercati africani è il risultato, come si accennava sopra, delle difficoltà nello spostamento e nel reperimento delle risorse che interessano questi luoghi: i momenti d’incontro collettivo diventano insomma più significativi laddove le possibilità di spostamento e comunicazione sono ridotte e perciò lo scambio d’informazioni può assumere un’importanza vitale. Non a caso è tradizione presso gli Afar (o Dancali), storici abitatori della regione desertica della Dancalia, il dedicare un mezz’ora circa, durante gli incontri fortuiti o meno che avvengono nel deserto, allo scambio orale d’informazioni rilevanti raccolte attraverso i differenti tragitti. Questa usanza interessa ovviamente anche i mercati, dove oltre allo scambio di merci è d’abitudine lo scambio di notizie; il mercato diventa così una bacheca di pubblico interesse, un momento d’informazione collettivo.
Gli Afar sono ovviamente esemplari per quel che riguarda la sopravvivenza in luoghi ostili dal momento che abitano storicamente, ed orgogliosamente, una delle regioni notoriamente tra le più ostili sulla terra. La loro partecipazione al mercato è, in mancanza di qualsiasi risorsa naturale, di vitale importanze per la propria sopravvivenza. E’ il commercio del sale che permette il sostentamento di questa indomita gente da secoli: il suo commercio è concentrato in un luogo specifico, ovvero il mercato di Bati , di cui ci occuperemo specificamente.

3. Il Mercato di Bati

Tutt’oggi il mercato di Bati è il secondo per importanza in Etiopia, preceduto solo da quello di Addis Abeba. Esiste tuttavia una differenza fondamentale tra il mercato di una capitale e quello di una regione remota come quella di Bati. Addis Abeba è una capitale, un centro per la nazione intera, Bati invece è un luogo di confine e d’incontro, così come il suo mercato. L’importanza del mercato di Bati supera quello della città stessa, al punto tale che si è ipotizzato che la fondazione della città sia successiva alla sua istituzione come luogo di commercio. Lo stesso, ovviamente, non può essere detto di Addis Abeba.
Ma Bati e il suo mercato non rappresentano solo un confine geografico, collocati al limitare tra la Dancalia e gli altopiani settentrionali che la includono ma, proprio in virtù di questa posizione, sono protagonisti di uno scambio culturale di fondamentale importanza in ambito Etiope: quello tra le popolazioni nomadi del deserto, i già menzionati Afar, e le popolazioni pastorali ed agricole degli altipiani, gli Amhara e gli Oromo. Le divisioni etniche in Etiopia hanno origini antichissime: dove le popolazioni stabili hanno visto il succedersi di governi stranieri (arabi, turchi, italiani) l’isolamento della Dancalia e la sua naturale ostilità hanno invece permesso agli Afar il mantenimento di un’identità ben definita, primigenia, legata indissolubilmente allo stile di vita nomade, con tutte le sue implicazioni. L’islam sembra essere l’unico punto di contatto tra i Dancali e il mondo esterno, sebbene si tratti, per cause necessarie, di un’interpretazione piuttosto debole della religione rispetto a quella che possiamo immaginare. Si tratta di una religione che che non prevede momenti di culto, studi di testi religiosi, le cui regole sono riadattate sullo stile di vita ai margini della sopravvivenza di questo popolo e che, soprattutto, è contaminata da credenze religiose specificamente africane, di cui è impossibile sia per noi che per gli Afar stessi, tracciare un limite preciso rispetto alla religione musulmana propriamente detta .
Quello che avviene settimanalmente al mercato di Bati è quindi un incontro tra due facce di una stessa identità nazionale: da un lato la parte più “civilizzata”, che in quanto tale ha conosciuto il susseguirsi di innumerevoli dominazioni e il contatto con il mondo esterno all’Africa, e dall’altro un’anima indomita, legata al territorio e alla propria identità in un maniera viscerale, custode gelosa di entrambi.
Si è già accennato al ruolo che le possibilità di scambio offerte da questo mercato giocano nella vita degli Afar e all’importanza che il commercio del sale riveste per la loro stessa sopravvivenza. L’incontro al mercato potrebbe insomma sembrare quasi un momento di compromesso per gli indomiti Afar, e sotto una certa interpretazione piuttosto semplicistica, potrebbe esserlo. Ma ancora una volta quello che qui si vuole indagare è il mercato come punto d’incontro e gli Afar, nel loro riavvicinamento alla società civile, non hanno bisogno di mettere da parte la propria identità: quando confluiscono nel mercato, lo fanno da nomadi del deserto. La cultura dancala irrompe nello scenario del mercato modificandolo profondamente: i segni dello stile di vita Afar restano chiaramente visibili nello scenario umano.

4. I mercati di Sabbatino


Ne “Il mercato di Bati” (translitterato come Bathié, secondo la denominazione arcaica) Sabbatino rappresenta questo scontro culturale con efficacia e chiarezza esemplificativa, seppure forse in maniera inconsapevole, riuscendo a catturare un momento pregno di significati culturali attraverso la semplice intuizione visiva e compositiva che contraddistingue il grande pittore. La tela è ripartita in due, attraversata orizzontalmente dalla linea dell’orizzonte. La divisione netta che si stabilisce è quella tra una convergenza, un raduno di esseri viventi e l’immenso, arido, sovrastante scenario naturale che li circonda. Il mercato ha luogo in un bassopiano ai piedi dei monti della Rift Valley: è una spazio sottratto all’ostilità del deserto della Dancalia meridionale, quasi una sua concessione. E’ una natura imponente, ostile e onnipresente quella che fa da teatro a un momento di vitale importanza per la sopravvivenza dei popoli vi camminano. Per questo forse il gruppo umano appare così compatto e ben distinto dall’ostico scenario naturale.
Sono gli Afar che sono abituati a percorrere quelle vallate. Le donne dancale sono perfettamente riconoscibili, vestite di un rosso arroventato come la terra che le circonda, mimetizzate in essa come suggeriscono le cronache degli esploratori coloniali, con un semplice panno intorno alla vita e accompagnate dagli asini, creature fondamentali per le traversate nel deserto quanto lo sono i cammelli. Il legame con la terra di questo popolo, dimostrato dall'attaccamento che ancora oggi gelosamente le dimostrano, dal perpetuarsi indomito del loro stile di vita in integrazione con un ambiente così difficile, trova nella tela un riscontro cromatico nel parallelismo tra il calore del territorio e il rosso acceso dei drappi degli Afar. Ma, come si accennava sopra, quello che Sabbatino racconta è un momento d’incontro, e la controparte dei dancali è rappresentata nel quadro dai popoli provenienti dagli altipiani e dalle zone costieri, in opposizione al gruppo Afar sia spazialmente che cromaticamente. Complementari ai rossi dei drappi dancali sono le tinte chiare delle futa caratteristiche, che sembrano riempire principalmente la parte destra del mercato, marcando così una divisione verticale che si aggiunge a quella orizzontale tra scenario naturale e mercato. Si noti il gruppo di sei figure, una delle quali con parasole, disposte sul limitare destro del gruppo umano, in posizione quasi speculare rispetto al gruppo di donne dancale in primo piano. Eppure la divisione tra gruppi e popoli è meno netta rispetto a quella tra paesaggio naturale e umano. E’ la mescolanza cromatica che restituisce felicemente un’amalgama che sembra il risultato di un incontro, uno straripare di un gruppo nell’altro che contrasta con la netta divisione tra natura e umanità, superandola. Quello che Sabbatino ha catturato così efficacemente è lo sforzo di cooperazione tra genti diverse nel tentativo di superare le sfide quotidiane di sopravvivenza implicate inevitabilmente da uno scenario naturale così ostico. Alla luce di quanto descritto dalla tela apparirà più chiaro in che senso il mercato africano rivesta una funzione radicalmente diversa, oltre che ben più ampia, rispetto alla nostra di concezione di luogo meramente dedicato allo scambio commerciale. Il mercato in Africa è un luogo d’incontro, in uno scenario dove lo scambio di informazioni e la cooperazione possono essere elementi determinanti alla sopravvivenza di coloro che vi abitano . Il mercato di Bati e la tela di Sabbatino che lo raffigura, diventano così una rappresentazione dello spirito di collaborazione, dell’impulso alla vita, una sua celebrazione tanto più sentita quanto più si prende coscienza della desolazione e della difficoltà del deserto entro cui si svolge.
E ancora, per meglio comprendere il concetto si consideri il confronto con un'altra tela del pittore, rappresentante invece il mercato di Keren .

Siamo in Eritrea, Keren si trova in una regione circondata, al tempo in cui Sabbatino percorre l’Africa, da boschi di acacie e pascoli, dove la mescolanza culturale ed etnica pure è molto sentita. Il gruppo prevalente sono i bileni, tra i quali convivono il cristianesimo copto e l’islam, in una forma non contaminata da religioni e rituali ancestrali come presso i dancali. Rispetto a Bati, siamo decisamente più vicini alla costa del Mar Rosso, che ha determinato storicamente maggiori influssi da parte di culture semitiche ed arabe. Ancora una volta, le mescolanze culturali hanno un riflesso nello spazio comune nel mercato:

“Il mercato poi è di tipo perfettamente arabo, cioè costituito da piccole botteghe esterne alle case, e nelle quali le mercanzie sono installate su banchi di legno, - dietro cui i venditori se ne stanno impassibili, aspettando i clienti con quella muta e immobile tranquillità, che è propria dei mussulmani” (G. Daianelli, In Africa: Lettere dall’Eritrea. Istituto italiano d’arti grafiche. Bergamo, 1908. p. 49).

Il mercato “abissino” di Bati rimane possibile solo nel profondo della Dancalia, al suo confine settentrionale la situazione è radicalmente diversa. La sua organizzazione è ben definita, non troviamo più le merci “disposte qua e là”, ma una spazio circoscritto in cui l’esigenza commerciale sembra prioritaria rispetto alla necessità d’incontro per la comunità. Ovviamente questa specifica configurazione è causata da contingenze storiche e culturali. Eppure anche l’assenza di uno scenario naturale come quello della Dancalia meridionale sembra ridurre l’importanza che il mercato riveste come luogo d’interazione collettiva e di cooperazione. Il mercato di Keren non è circondato dai monti della Rift Valley, ma da mura e bancarelle regolarmente disposte. La natura non è più una presenza incombente; la sopravvivenza è più facile, scontata, la necessità di aggregazione comunitaria probabilmente meno sentita. Forse per questo Sabbatino ha l’esigenza di concentrarsi su una figura individuale e non su una scena di massa. La ragazza al centro della tela, vera protagonista del quadro, ci suggerisce che quella rappresentata sia la pare del mercato destinata alle donne, altra divisione inconcepibile in uno scenario come quello visto a Bati.
L’occhio di Sabbatino è stato capace di catturare momenti e scene di vita che, se interpretati attentamente, diventano capace di svelare dinamiche storiche e culturali complesse. Il suo sguardo è spesso fotografico e la sua prospettiva e narrazione non differiscono poi molto da quelle di un esploratore coloniale. Eppure rispetto alle foto d’epoca che riempiono le cronache di questi esploratori africani, Sabbatino è capace di restituirci, con la stessa audacia ed irrefrenabile curiosità, un elemento che i cronisti coloniali non hanno potuto registrare nelle loro opere: il colore. Quella di Sabbatino è una narrazione, una cronaca cromatica che disvela elementi di fondamentale importanza per una vera conoscenza di un territorio complesso e vario come quello dell’Africa Orientale. Ma soprattutto, rispetto agli esploratori che hanno percorso i suoi stessi luoghi, Sabbatino può offrirci, nel suo racconto dell’Africa, la sensibilità umana e il trasporto emotivo di un autentico artista.