Il modo migliore per comprendere l’originalità e la specificità di Giambattista Sabbatino è probabilmente il considerarlo nella sua posizione di artista a metà tra due mondi, quello italiano e quello africano. La prospettiva di Sabbatino è, da un certo punto di vista, singolare: la sua pittura rappresenta il felice incontro tra la solidità dei canoni artistici più classici, consolidati dalla frequentazione dell’ambito accademico romano e irrefrenabili istanze di esplorazione che sono al contempo personali, artistiche, geografiche e storiche. Quando abbandona Roma nel 1939, Sabbatino porta con sé tutte le conoscenze e il suo spirito di artista "neo classico"; nel rappresentare il nuovo paesaggio per mezzo della pittura sembra emergere il desiderio di mettere le sue solidissime conoscenze artistiche al servizio della descrizione di questa nuova realtà, quasi come mosso da un desiderio di inquadrare anche la sua pittura in un progetto coloniale. Questo intento traspare nitidamente dalle tele, dalla tecnica pittorica di Sabbatino: la plasticità delle figure umane e animali, quasi palpabili nella definizione anatomica, conferiscono alla sua produzione pittorica un carattere vagamente documentale, in senso fotografico. Le sue tele ci restituiscono così una rappresentazione dettagliata ed ordinata di una realtà umana, culturale e paesaggistica ormai scomparsa. Eppure ridurre l’opera di un artista visuale così prolifico a quella di cronista coloniale è certamente riduttivo.
Lo sguardo di Sabbatino è tutt'altro che distaccato e decisamente poco conciliabile con la prospettiva oggettivizzante del cronista: al contrario la sua attenzione sembra spostarsi irrefrenabilmente e con gioia quasi infantile tra le situazioni più diverse, mossa un autentico trasporto nel confrontarsi con la varietà e radicale differenza del paesaggio italiano rispetto a quello delle sue origini. Questa fascinazione per l'Africa, questo rapimento estetico, emerge in tutta la sua forza nelle scelte cromatiche: lo sviluppo della pittura di Sabbatino consiste nel graduale sciogliersi della forma nel colore, nel rallentarsi del tratto in un’esitazione e in una cura che sono espressione della pura gioia di osservare uno scenario ignoto, liberatorio, ricco di promesse e di una bellezza fin ora mai immaginata. L’uso del colore ha una funzionane complementare rispetto alla descrizione plastica: dove il dettaglio per le figure e gli ambienti ci mostra ciò che il pittore ha visto, conferendo alla tela quel valore testimoniale di cui prima si faceva menzione, il colore trasmette, nella sua intensità e densità, nelle sue tinte abbaglianti, la perturbazione emotiva che l’Africa produce nel pittore, tutto l’incanto provato da questo lento esploratore. In questo modo la visione di Sabbatino è al contempo lucida e trasfigurata, la sua è un'Africa storica, ma irrorata di una luce abbagliante, è una rappresentazione del torrido sole africano, del rosso infuocato dei drappi delle dancale, dei riflessi sull'acqua del Lago di Keren, ma allo stesso tempo del piacere stesso dell'artista nel soffermarsi in modo estatico su tutto questo, nella gratitudine di poter esserne testimone privilegiato. Quanto più si prende coscienza dell'unicità della prospettiva di Sabbatino, della transitorietà dell'Africa conosciuta del pittore, tanto più è possibile apprezzare appieno il valore delle sue tele: nella loro felice conciliazione tra la testimonianza umana, culturale e storica e l'espressione della pura gioia infantile dell'esplorazione, artistica e geografica, i quadri di Sabbatino sembrano realizzati per colmare una distanza temporale, per renderci partecipi, trascinandoci per mezzo di forme e colori vividissime, di un viaggio che pochi non vorrebbero intraprendere.