1. Il ritratto di donna africana
Non è raro che donne africane vengano scelte come soggetti di ritratti pittorici o fotografici. La loro rappresentazione più comune, ne associa la figura a un senso di esotismo, bellezza naturale, di libertà primigenia. Spesso il fascino per il ritratto femminile africano scaturisce proprio dalla nostra lontananza culturale rispetto ai soggetti rappresentati, di cui si mettono facilmente e frequentemente in risalto la particolarità degli abiti e dei gioielli tradizionali. Allo stesso modo l’attenzione per la spontaneità delle espressioni facciali sembra suggerire l’idea che le donne ritratte siano capaci in qualche modo di una gioia primordiale, conoscibile solo in contesto dove si ha libertà dai quelli che sono i nostri vincoli e condizionamenti sociali, come quello in cui vivono alcune culture africane. Seppure sia argomentabile che esista una maggiore autenticità in una vita basata sullo stretto legame con tradizioni antiche e in contatto diretto con le necessità primarie dell’esistenza, come suggerito da alcuni che hanno avuto modo di vivere questi contesti direttamente, è necessario guardarsi da semplificazioni stereotipanti per poter cogliere appieno l’identità dei soggetti rappresentati, piuttosto che vedere nel ritratto solo quanto ci è permesso dalle nostre aspettative culturali.
2. Quadri e cartoline
Se quindi dal ritratto di donna africana è emersa frequentemente, ma non necessariamente, un’immagine eccessivamente romanticizzata oppure, nei casi più estremi, grottescamente semplicistica (da “buona selvaggia”), bisogna considerare in che modo il suo essere diventata simbolo di libertà ancestrale vada a scontrarsi in verità con le condizioni di oppressione in cui è costretta la donna in territori come quello dell’Africa coloniale, tentando così di impedire che una sua rappresentazione troppo idilliaca mascheri una condizione di repressione storicamente radicata, oltre che tristemente attuale.
Alcuni degli esempi più aberranti in questo senso, provengono proprio dal periodo coloniale. Caso emblematico è quello del fotografo Errardo di Aichelburg che, nell’articolo “Tra le donne dell’eritrea” ( Rivista mensile del Corriere della Sera , giugno 1912, Fascicolo 6) pubblica una serie di ritratti di donne raccolti durante la sua esperienza in Africa, correlati da osservazioni sugli usi e i costumi femminili osservati. Foto di questo genere, come quelle di Aichelburg stesso, al tempo venivano spesso impiegate per realizzare cartoline; si tratta di un fatto emblematico: la figura femminile viene trattata al pari di un paesaggio, parte integrante di esso, quasi un’attrazione locale. Emerge un certo distacco anche dal taglio fotografico: le donne vengono uniformemente rappresentate in posa, ritratte a figura intera, da una prospettiva che suggerisce più interesse di tipo documentale, che non umano. Per comprendere a fondo la freddezza di queste rappresentazioni, ci valga il confronto tra una cartolina di questo tipo e uno dei quadri a soggetto femminile di Sabbatino, entrambi rappresentanti donne bilene.
Nelle due figure riconosciamo elementi simili: l’abbigliamento composto dalla sola futa avvolta intorno alla vita, l’acconciatura dei capelli strettamente intrecciati e fissati, secondo la consuetudine locale, con abbondanti dosi di burro fuso. Ma in che modo la rappresentazione di Sabbatino si dimostra più vera? Rispetto alla freddezza di questo genere di fotografia dal quadro emerge un trasporto umano nei confronti del soggetto interamente comunicato per mezzo del tratto pittorico e del colore. La pennellata indugia sulla carne, sui riflessi di luce calda che sembrano quasi accarezzarla. La nudità della ragazza non sembra sintomo di miseria o arretratezza, ma al contrario Sabbatino ne rappresenta la sensualità con l’onestà che fa parte di una cultura dove la selezione sessuale e i matrimoni combinati avvengono in età giovanissima, e dove alla procreazione viene riconosciuto un valore e un’importanza, nella definizione del ruolo di un individuo all'interno della società, sconosciuta alla concezione occidentale. Anche l’espressione del viso sembra comunicare quei tratti di bontà d’animo, gioiosità e mietezza di carattere che tanti cronisti coloniali riconoscono nel popolo bileno. Ma la differenza di sensibilità tra il fotografo e il pittore emerge anche e soprattutto dalla capacità di Sabbatino di cogliere quelle stesse figure femminili in contesti che difficlimente potrebbero essere inclusi in rappresentazioni come quelle di Aichelburg, ne raccontano l’autentica vita quotidiana, la cultura d’appartenenza, l’identità. In questo senso quadri come "L’anziana Pastora" o la "Madre con Bambino" vanno a completare un arco iniziato con il quadro della Bilena. I quadri colgono così, nello stesso contesto sociale, il valore attribuito alla donna in quanto madre ( la sacca in cui il bambino viene trasportato è estremamente diffusa nell’Africa Orientale, il fanciullo continua a farne uso fino all'età di due o tre anni, a riprova della forza che possiede l’attaccamento materno nei primi anni di vita presso queste popolazioni) e poi in quanto lavoratrice insostituibile, una volta che le sue funzioni familiari si sono esaurite.


3. Realtà della donna nell’Africa Orientale
Nel caso delle fotografie di Aichelburg, l’immagine semplicistica e stereotipata della donna non traspare solo dalle fotografie: i commenti presenti nell'articolo sono altrettanto esemplificativi di una prospettiva di questo tipo.
Risulta evidenti da questi pochi cenni, in che modo il pretesto della critica al maschilismo delle popolazioni africane si inquadri la donna sotto un altro sistema di pregiudizi, che la vogliono però accettabile allo stesso modo come massaia e procreatrice, oggetto e strumento del processo di colonizzazione. Esiste da un lato l’ipocrisia del considerare la sostituzione di un regime maschilista con un altro che condivide di fondo gli stessi valori come innalzamento della condizione femminile. La stessa critica è stata, non a caso, rivolta al presunto miglioramento di questo tipo a seguito della conversione all’islam delle popolazioni di questi territori, di secoli antecedente a quella cristiana:
Dovremmo quindi concludere che la colonizzazione in Africa abbia rappresentato semplicemente l’imposizione di valori maschilisti su una società in cui l’equilibrio tra uomo e donna aveva una sua ragione d’esistenza primordiale, accettabile al pari di qualsiasi altra morale occidentale in virtù del relativismo culturale? Chiunque scegliesse questa interpretazione, dovrebbe di riflesso negare che la dignità della persona, psichica e fisica, e il rispetto per la propria autodeterminazione non siano valori universali e condivisibili dall'umanità intera. Resta tuttavia da definire, proprio in virtù dei differenti processi di colonizzazione che hanno interessato questi territori, a quale influenza culturale dobbiamo propriamente attribuire la posizione di marginalità sociale che interessa tutt’oggi la donna africana. Se da un lato sembrerebbe che le recriminazione femminile fosse ampiamente diffusa già nell’Africa precoloniale, è altrettanto vero che esistono studi antropologici che hanno messo in discussione questo pregiudizio. Un caso certamente più emblematico è quella del gruppo dei Cunama, ristrettissimo popolazione abitante al confine tra Eritrea ed Etiopia che, rimasto relativamente isolato da influenze coloniali, riserva tutt'oggi alla donna una posizione originalissima e privilegiata:
Da queste osservazioni si sono sviluppate ipotesi sulla presenza di un antichissimo regime matriarcale africano, oggi scomparso, associato a culti religiosi di matrice femminile, come quello della Dea Mater ("Cerulli, La dea Mater ed il suo culto tra le genti dell'Etiopia meridionale (Galla e Caffa), in Rivista di Antropologia, XLIII, 1956, pp.1-12"). Eppure anche presso i Cunama dietro alla possibilità di una libertà sessuale sconosciuta anche in ambito occidentale, resta di fatto un forte pregiudizio di fondo nei confronti delle donne: anche qui, come in molti altri gruppi etnici, la nascita di un maschio viene accompagnata da maggiori celebrazioni rispetto a quella di una femmina, allo stesso modo è ampiamente praticata, come in molte altre aree dell’Africa Orientale, l’infibulazione. Certo pratiche di questo tipo possono essere attribuite ad influenze islamiche successive, seppure alcuni non considerano questa pratica come non strettamente connessa alla dottrina islamica, preferendo attribuirla a influenze di sostrato da parte delle popolazioni convertite. Se quindi il succedersi di regimi patriarcali e il fanatismo religioso sono stati in Africa, come sempre storicamente, un terreno fertilissimo per il mantenimento di usanze degradanti e recriminanti nei confronti della donna africana, è altrettanto vero che il quadro di quella che fosse la situazione della donna precedentemente all'instaurarsi di tali regimi non è affatto chiaro. A prescindere dalla risoluzione del problema, resta evidente una contraddizione fondamentale tra il riconoscimento della libertà e dei diritti della donna in funzione del suo ruolo nella società, e un atteggiamento repressivo di fondo che trova spesso riscontro anche sul piano formale. Come è possibile venire a capo di questi paradossi e dare una spiegazione sulle vere cause della marginalizzazione della donna in Africa ? In altre parole, esistono fatti evidenti che ci suggeriscono l'esistenza di radicati atteggiamenti discriminatori nelle popolazioni dell'Africa orientale, che possono essere facilmente spiegati con l'esistenza di valori strettamente ed innegabilmente maschilisti nell'ambito di questi gruppi. D'altra parte è opportuno chiedersi se altri atteggiamenti, capaci di ledere la dignità femminile allo stesso modo, non siano il risultato di valori diversi, che riguardano in senso più ampio il valore dell'individuo all'interno della società. In altri termini è impossibile rendere pienamente conto dei differenti trattamenti riservati a uomini e donne presso questi gruppi africani senza prima ricostruirne la concezione del mondo e la cultura nel sua totalità, abbracciando al suo interno il significato della vita dell’individuo e il valore che gli viene attribuito in quanto tale nella società prima della distinzione tra uomini e donne.
Non è un problema di facile risoluzione, soprattutto considerando l’enorme differenza culturale e materiale che sussiste tra le nostre concezioni di vita, oltre che l’assenza di fonti storiche per quel che riguarda il periodo precoloniale. A oggi il rendere conto in maniera comprensiva di mentalità e concezioni di vita così radicalmente diverse dalle nostre, come quelle di molti gruppi dell’Africa Orientale, è un’impresa ancora da compiersi. Ciò che è possibile fare è tentare di raggiungere l’obbiettivo per mezzo dell’esplorazione di queste contraddizioni.
4. Donna Dancala
In questo processo di esplorazione un caso interessante è rappresentato dai Dancali, o Afar. Presso questo gruppo di nomadi abitatori del deserto, convertitisi alla religione mussulmana ibridandola con credenze rituali ben più antiche, osserviamo la stessa contraddizione tra la repressione della donna e il ruolo centrale che riveste per la sopravvivenza del gruppo nella sua lotta quotidiana contro le avversità del deserto. Particolarissime le osservazioni di Nesbitt, esploratore coloniale degli anni ’20 a cui certamente non possono essere attribuiti pregiudizi femministi:
E ancora racconta un episodio molto esplicativo della dinamica dei rapporti tra uomo e donna presso i dancali:
La difficile condizione di soggiogamento della donna non sfugge certo all'esploratore, che oltre a riportarci questi episodi al limite dello sfruttamento, definisce il controllo esercitato dai dancali uomini nei confronti delle mogli come “una vigilanza mista di fanatismo e naturale gelosia (ibidem)”, oltre a riportarne le usanze più crude come la frequente pena di sgozzamento per la donna in caso di rapporti pre-matrimoniali o le pratiche di mutilazione genitale. Nonostante la repressione che vive, le donna Afar trova il suo riscatto in virtù della posizione tutt’altro marginale che riveste nel garantire la sopravvivenza del gruppo, soprattutto in regioni estremamente ostili come la Dancalia, mettendo in luce la paradossalità del pregiudizio della sua controparte maschile nei suoi confronti: funzioni vitali quali la diplomazia e il contatto con l’esterno, restano di appannaggio esclusivamente femminile. Queste parole di John Coyne, in rapporto all'arrivo di un gruppo di Afaral mercato di Bati, descrivono una situazione simile a quella narrata da Nesbitt, ricordandoci ancora una volta delle sottili capacità sviluppate dalla donna dancala per affrontare le ostilità del deserto:
Quelle stesse donne vengono rappresentate sapientemente da una serie di opere di Sabbatino realizzate proprio nei pressi del mercato di Bati nel 1949, a trent’anni di distanza dalla spedizione di Nesbitt. Due quadri, dedicati alla stessa dancala, si distinguono dagli altri. Il primo la rappresenta accanto a un asinello, animale spesso usato per gli spostamenti nel deserto e in questo caso anche per il trasporto delle merci nel mercato. Il secondo quadro è un primo piano del volto della donna che scruta l’orizzonte, alle sue spalle le cime dei monti delle Dancalia. La forza del quadro emerge dall’enigmaticità dell’espressione della donna, da un’ermeticità che ci ricorda il divario che esiste tra i principi che guidano la nostra esistenza quotidiana e il significato di un’esistenza vissuta al limite della sopravvivenza, e della nostra incapacità di coglierlo appieno. Il suo sguardo è diffidente ma sembra anche guardare allo scenario circostante, in una sorta di connessione perenne al paesaggio naturale. In qualche modo, il suo stagliarsi fiera contro il cielo cristallino della Dancalia, unitamente all’imperscrutabilità dello sguardo, in apparenza concentrato sull'imminente sfida per la sopravvivenza, restituisce tutto il mistero, tutta la complessità, la forza e la fierezza della donna Dea africana.

